Il New York Times pubblica il format “in 36 ore” di Ingrid K. Williams su Roma nel quale la freelance scrittrice di viaggi, cibo, arte, cultura per periodici e giornali, non fa mancare la sua opinione su cosa sia irrinunciabile fare in città avendo a disposizione i classici tre giorni, proprio la media di permanenza a Roma dei turisti. Una lista, come è facile aspettarsi, inconsueta ma meritevole perché fortemente personale, di conseguenza almeno un po’ fuori cliché. Intendiamoci, una lista in grado di alimentare altri cliché, in particolar modo quelli, nel bene e nel male, ispirati dal film La Grande Bellezza; un peana infinito agli incomparabili tesori monumentali, al saper vivere, al saper mangiare e vestirsi, alla creatività, e tutte le altre virtù nazionali, rimasticate non più o non solo come dati di fatto, ma prevalentemente come figura retorica che stacchi bruscamente dall’immagine di improvvisazione, menefreghismo e malaffare che per altri versi ci contraddistingue all’estero. Novità rilevante lo startuppismo comunicativo ormai incontenibile, in virtù del quale un bar, una trattoria, un negozio di abbigliamento diventano universi concettuali in cui immergersi.
Il venerdì, appena arrivati, già sul set di Sorrentino alle Terme di Caracalla, esempio di rovine dai laterizi evocativi, una delle fortune della città. Ma dopo immediatamente fuori circuito con l’arte contemporanea insediata intorno a Campo de’ Fiori: il Pop surrealism della Dorothy Circus Gallery, la Street Art della Galleria Varsi, e l’autorevolezza della Galleria Lorcan O’Neill. Verso sera le nostre periferie con la cucina romana da chef di Mazzo in pieno quartiere Centocelle.
Ritornando con il tram veso il centro si può fare tardi al Pigneto, bevendo birra al Birra Più, oppure cocktails strani al Co. So. Cocktails & Social o ancora ascoltare band e dj dal vivo al Yeah! Pigneto.[Continua]